mercoledì 25 febbraio 2009

C'era una volta - Cap.IX

A parte i primi giorni di pioggia, mai pesante ma sempre continua, il sole aveva fatto da contorno a tutta quella settimana in paese. Che giornate fantastiche, sempre uguali negli anni, ma ogni anno più belle. In un paese così piccolo non poteva sperare di incontrare nuove facce, le conosceva già tutte. Capitava purtroppo, e ogni anno con maggiore frequenza, che qualcuna di quelle facce andasse via. Chi fuggiva perchè troppo giovane per sognare una vita intera nel minuscolo centro abitato, e chi se ne andava, perchè ormai troppo vecchio, avendo terminato i propri passi sul sentiero dell'esistenza. Si chiedeva quanto tempo ci sarebbe voluto prima che tutte le case potessero rimanere prive dei propri inquilini. Seppure con un velo di tristezza, andare a zonzo per il paese la rendeva però sempre felice.
L'odore di antichità, l'aria secca e pulita, i vicoli stretti, i ciottolati, producevano fantasie che difficilmente potevano nascere in altri luoghi. In città tutto era serio, rigido, calcolato, e poco spazio lasciava all'immaginazione. Ma qua era diverso. Era facile immaginare le janas volare per le strade in cerca di compratori per i loro magici abiti. Non sembrava impossibile che uno strano esserino con sette cappelli potesse attirare i meno astuti al confine del paese. Poteva facilmente sentire gli zoccoli de su erkittu che si lancia in una folle cavalcata, pronto per portarsi via un'anima malandrina. Storie, racconti, favole, tutte fantasie che qui potevano vivere senza la minaccia del Signor Dubbio. Qui erano nate, e di bocca in bocca avevan percorso tutti i territori circostanti. A volte cambiavano i nomi, alcuni particolari si perdevano, o si adeguavano ai diversi centri, ma il significato restava lo stesso. E poi arrivarono le città. E qui la fantasia si perde. Sedotta da mercanti e affaristi la mente dell'uomo si dedica agli affari, dimenticando troppo facilmente spirito e spiriti. Sospirò. Fortunatamente conosceva ancora tante persone che non volevano mettere da parte le vecchie storie, pronte a raccontarle ancora, a portare avanti quella tradizione che pian piano si andava perdendo.
Il vento era forte. Seduta sul muretto a secco, immersa nei propri pensieri, non si era resa conto della stranezza di quel vento. In paese il vento non soffiava mai. Le montagne che lo circondavano solitamente lo proteggevano, formavano una sorta di cortina invalicabile. Eppure quella sera soffiava. Ma se li soffiava così forte chissà in che situazione si trovano i paesi oltre le montagne, e ancor peggio la pianura vicino alla costa. Foglie e polvere si sollevavano. Vide delle pigne, strappate agli alberi natii, rotolare rapide lungo la strada. Sempre più veloci, lanciate verso il punto più in basso della strada, volavano giu per il curvone; volavano giu in quella scarpata in cui tanti anni prima suo padre era volato giu con la bicicletta, venendone fuori totalmente illeso. Questo, perlomeno, era ciò che le avevano raccontato. Un'altra di quelle storie di paese, ricca di particolari precisi e intriganti, tanto diversa dalla descrizione di un incidente cittadino che potevi leggere sui quotidiani.
Scese dal muro. Iniziava a farsi tardi. L'ora di cena si stava avvicinando, ed Erica non voleva assolutamente che la zia si arrabbiasse con lei. Era una donnina tanto buona e vitale. A discapito della sua età era ancora al pieno delle proprie forze; forza che non osava nascondere, e che arrivava ad esplodere in determinate occasioni. I ritardi all'ora di cena erano una di queste. Ogni volta che arrivavano a casa sua, dopo averli baciati e abbracciati, tirava le orecchie a lei e al fratello e ricordava a entrambi che si cenava alle otto e trenta in punto, non un minuto più tardi. Nel caso durante la giornata avessero dimenticato questo avvertimento, ci pensava sempre lo zio a ricordaglielo. Ogni giorno usciva di casa inotrno alle sette, e seppur la moglie per l'ennesima volta, così come aveva fatto per 50 anni di matrimonio, gli aveva ripetuto che la cena sarebbe stata pronta alle otto e trenta, lui rientrava con un ritardo variabile, tra i cinque e i venti minuti. Quello era un momento imperdibile della vacanza in paese. Appena lo zio metteva piede in casa lei scattava giu dalla sedia a dondolo, su cui passava i minuti di attesa sbuffando e boffonchiando, e correva verso il parapetto dell scale. Arrivata qui si sporgeva e cominciava a gridare. Una potenza vocale degna di una cantante lirica, arrivava dal profondo ed esplodeva lungo la tromba delle scale rimbombando, inseguita dal forte eco che la vecchia casa produceva. Le urla duravano alcuni minuti, cioè tutto il tempo che il povero zio impiegava per percorrere le 6 rampe di scale. Era uno spettacolo davvero imperdibile, non solo per la dimostrazione delle possibili energie che possono esser nascoste dentro una vecchina baffuta, ma soprattutto per il suo effetto collaterale.
Immaginate un vecchio quasi ottantenne che percorre le sei rampe di scale di una vecchia casa, in cui il concetto di pianerottolo per il riposo non era mai arrivato, senza l'aiuto di un bastone o di un corrimano. Mentre i primi gradini venivano superati con agilità, la seconda parte della salita si tramutava in uno sforzo immane per l'anziano zio, diventando assolutamente insormontabile a metà dell'ultima rampa. A questo punto iniziava il vero spettacolo. Quando ormai era chiaro che quelle vecchie gambe non avevano più la forza per affrontare da sole quella prova, altre due gambette, corte, tozze e piuttosto grassocce, correvano in loro aiuto. Nel momento in cui lo zio dimostrava di non avere più le energie per affrontare la salita, le urla terminavano, e la zia si lanciava in suo soccorso. Tutto l'amora coltivato in decenni di matrimonio mostrava ancora una volta la sua vitalità, il suo fuoco non ancora spento. In un abbraccio tenerissimo percorrevano quegli ultimi gradini, con forse più affetto di quello che avevano provato discendendo la gradinata della chiesa nel giorno del loro matrimonio. Nessuno li poteva aiutare, chiunque si fosse proposto veniva fulminato dallo sguardo di lei. Era una scena bellissima, un'immagine favolosa, talmente suggestiva e semplice che il più grande dei registi avrebbe pagato oro per poterla riprodurre. Il più grande degli effetti collaterali, che avrebbe reso davvero prodigioso qualsiasi medicinale.
Passavano i minuti, e con essi i pensieri le attraversavano la mente, accompagnandola nel tragitto verso casa. Invidiava gli zii, e sognava un giorno di poter vivere gli stessi momenti. Attimi e situazioni che a volte le sembravano sempre più lontani. Faceva sempre meno progetti. Ogni giorno che passava cercava di vivere la propria vita nella più assoluta semplicità, senza particolari speranze. Prendeva le proprie decisioni passo passo, sicura delle proprie scelte, e senza lanciarsi in situazioni poco sicure. Viveva stati d'animo di assoluta serenità, a volte esageratamente sereni, quasi apatici. Ma anche questo era solo un momento, uno dei tanti che si era vista passare davanti. Rifletteva così profondamente che non si rese conto della panchina che si trovava sul suo cammino. Ci sbattè contro. Dopo un primo attimo di smarrimento una folata di vento le gettò in faccia una nube di foglie giallastre, dure e graffianti. Come uno schiaffo in pieno volto l'aria pungente la riportò con i piedi per terra.
Era quasi arrivata a casa. Solo un'ultima curva e la piazza grande la separavano dalla cena. Camminava a passo svelto, o almeno era la sua intenzione. Il forte vento limitava tantissimo il suo cammino.
Il rallentamento non fu però del tutto negativo. Voltò la faccia di lato, per evitare che troppa polvere le finisse sugli occhi, in direzione della piazza. Sul fondo, vicino agli alberi più vecchi, scorse una figura conosciuta. Seduto su una panchina, con in mano un libretto rosso, e lo sguardo rivolto verso le montagne, lo zio spiccava nella desolazione della piazza. Chissà cosa stava facendo. Era quasi ora di cena, magari stavolta poteva arrivare puntuale, almeno per una volta in vita sua. Si avvicinò. Lo chiamò più volte, ma il vento disperdeva ogni parola, e lui non sembrava accorgersi di nulla. Arrivò al suo fianco. Lo salutò, ma non ebbe risposta. Lo osservò bene, da capo a piedi. Stava li seduto sulla panchina, immobile, vestito con i suoi pantaloni grigi, la camicia e il suo impermeabile. Portava un cappello scuro, che contrastava con il colorito del viso. Bianco, con gli occhi chiusi, cereo come una statua. Gli tocco la mano, gelida. Lui aprì gli occhi. Rispose al tocco della nipote e la invitò a sedersi di fianco a lui. Non proferì una parola. Lei si sedette, senza protestare. Lo guardava, ma lo sguardo di lui era perso verso le vette lontane. Provò a parlare, ma lui la bloccò. Le fece un cenno con la mano, le chiedeva di aspettare. Così fece.
I minuti passarono e l'ora della cena era ormai passata, stavolta anche lei si sarebbe presa una bella strigliata dalla zia. Non poteva sperare nella stessa clemenza che, tutti i giorni, la donna riservava al proprio marito. Di minuti ne passarono altri. Non guardò l'orologio, ma si rese conto del tempo che fuggiva. Guardò ancora una volta l'anziano uomo. Non sembrava il vecchio gracile che tutti i giorni girovagava per la casa. Stava li, immobile, totalmente disinteressato al vento freddo, trasmetteva una strana forza. Sembrava quasi uno di quei colossi leggendari che si dice proteggessero le città di porto dall'attacco dei nemici. All'improvviso una mossa. Si alzò in piedi. Non si era aspettata questo scatto. Le enormi sopracciglia la guardarono, poi si accorse che anche gli occhi la stavano fissando. Una mano si sporse verso di lei. Con un gesto colmo di un'antica cavalleria la aiutò ad alzarsi, la prese a braccetto e s'incamminarono verso casa. Quando ormai si trovavano a mezza strada le parlò. Doveva avvisarla che purtroppo non l'avrebbe potuta aiutare a percorrere le scale. Lei, con un sorriso sulle labbra, dettato più dalla sorpresa dell'affermazione che da ironia, le chiese il perchè. Lui le spiegò che la zia era una donna gelosa, mai avrebbe accettato che un altra donna abbracciasse il suo uomo. La zia era ancora un donna focosa le disse.
Rise. Rise con grande spontaneità. E lui rise con lei, compiaciuto per l'effetto ottenuto.
Erano quasi arrivati alla porta, lui le prese la mano e gliela baciò. Rispose con un inchino, divertita da questo gioco di galanterie. Il vento diminuiva. Le foglie e la polvere venivano sostituiti dalle note di una canzone. La voce di Fabrizio De Andrè scandivano le parole de "La Città Vecchia". Veniva da casa loro. Chissà, suo fratello, o sua madre, o magari era stata la zia; no, la zia no, le brontolava seduta sulla sedia. Cedette il passo allo zio, che entrò in casa per primo.
Ripensò a quanto ancora sarebbe durato questo viaggio, sulla carta ancora lungo, ma effettivamente infinitamente corto...

...continua...

...Sacra & Pura Follia!!!

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